La mafia spiegata da Caponnetto


Webdoc Antonino Caponnetto

Lettera di Michele del Gaudio: Lettera di Michele Del Gaudio

Video dell'incontro di Antonino Caponnetto al Falcone Righi

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La vita

Antonino Caponnetto (Caltanissetta, 5 settembre 1920 – Firenze, 6 dicembre 2002) è stato un magistrato italiano noto soprattutto per aver guidato, dal 1984 al 1990, il Pool antimafia istituito da Rocco Chinnici nel 1980. Dopo l'assassinio di Chinnici, ne prese il posto nel novembre 1983. Accanto a sé chiamò Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, Gioacchino Natoli, Giuseppe Di Lello e Leonardo Guarnotta. La loro attività portò all'arresto di più di 400 criminali legati a Cosa Nostra, culminando nel maxiprocesso di Palermo, celebrato a partire dal 10 febbraio 1986. È considerato uno degli eroi simbolo della lotta al crimine organizzato italiano. Seguendo la strategia studiata dall'ufficio istruzione di Torino, dove Giancarlo Caselli operava per la lotta al terrorismo, e continuando l'opera di Rocco Chinnici, realizzò nel 1984 un gruppo di magistrati che aveva il compito di occuparsi esclusivamente della lotta alla mafia. Il pool, che vide la partecipazione di Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Gioacchino Natoli, Giuseppe Di Lello e Leonardo Guarnotta, istruì il primo grande processo contro la mafia e si servì delle dichiarazioni di pentiti come Tommaso Buscetta. Quando decise di lasciare Palermo per tornare a Firenze indicò in Falcone il suo successore. Il Consiglio superiore della magistratura gli preferì Antonino Meli, e Caponnetto non nascose mai la sua forte amarezza per questa decisione, dovuta, secondo le sue parole a "cinque vergognose, letali, astensioni e due voti di maggioranza".Ribadendo in seguito anche le parole di Paolo Borsellino in proposito, che parlò di Giuda presenti fra coloro che presero la decisione. Concluse la sua carriera nel 1990 e dovette assistere prima alla morte di Falcone e poco dopo di Borsellino, assassinati dalla mafia. Divenne celebre il suo amareggiato commento alle telecamere poco dopo la strage di via d'Amelio, in cui disse «È finito tutto!», stringendo le mani del giornalista che poneva la domanda.Di tale commento si pentì subito, come spiegò poco dopo alla cittadinanza durante i funerali di Paolo Borsellino e poi, successivamente, in un'intervista a Gianni Minà nel 1996 nel corso della trasmissione Storie (Rai 2):
«Era un momento particolare, di sgomento, di sconforto. Ero appena uscito dall'obitorio dove avevo baciato per l'ultima volta la fronte ancora annerita di Paolo. Quindi è umanamente comprensibile quel mio momento di cedimento, forse non scusabile, ma comprensibile. In quel momento avrei dovuto - avevo l'obbligo, forse, e avrei dovuto sentirlo quest'obbligo - di raccogliere la fiaccola che era caduta dalle mani di Paolo e di dare coraggio, di infondere fiducia a tutti. E invece furono i giovani di Palermo a dare coraggio a me, che trovai dopo pochi minuti in piazza del tribunale. Mi si strinsero attorno con rabbia, con dolore, con determinazione, con fiducia, con speranza. E allora capii quanto avevo sbagliato nel pronunciare quelle parole e quanto bisognava che io operassi per farmele perdonare: operassi per continuare l'opera di Giovanni e Paolo.»